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Rocco Vallorani ha attraversato il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’ mondo del vino, per poi tornare alle origini, alla cantina che i suoi nonni riscattarono, anni fa, da un contratto di mezzadria. I Vigneti Vallorani si trovano a Colli del Tronto, su un colle a perfetta esposizione; la zona è vocata, la resa bassa per garantire una produzione di alta qualità. Sei i vini in commercio -Avora, Polisia, Konè, Zaccarì, Sorlivio, Philumene-, espressione della tradizione picena e di quella, più intima, legata ai suoi avi.
Chi è Rocco Vallorani?
Sono un enologo. Ho studiato enologia all’Istituto Agrario di Ascoli, la triennale a Perugia, la specialistica a Torino. Sono cresciuto qui in azienda, tra vendemmie e travasi. Ho lavorato in diverse aziende vinicole, in Italia, Francia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Dal 2010 sono tornato qui nel Piceno per far ripartire l’azienda che era di mio padre e, prima di lui, di mio nonno. Insieme a mio fratello Stefano, quattro anni fa mi sono buttato in questa avventura, creando l’azienda Vigneti Vallorani, che ha sede a Colli del Tronto.
Perchè hai deciso di tornare?
La tradizione; ho deciso di tornare per questo. Quando la gente pensa ai vini stranieri crede non siano buoni come quelli italiani; non è così. All’estero investono molto nella ricerca, il personale è qualificato, i costi sono più bassi e la burocrazia più snella, ma non hanno la tradizione; è questo il nostro valore aggiunto.
Quali sono i punti deboli del settore enologico locale?
Rispetto a dieci anni fa, la produzione enologica locale è aumentata sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, ma c’è ancora molto da fare. Quando ci si organizza per conquistare nuovi mercati, ci si dovrebbe muovere tutti nella stessa direzione. Questo discorso vale per il vino come per le altre tipicità locali, che rappresentano i veicoli di un territorio; ce lo insegna la Toscana. Chi arriva prima o più lontano di me non mi penalizza; l’importante è far conoscere il nostro territorio. Quando lavoravo in un’azienda in Toscana, ho proposto di installare un impianto fotovoltaico per alimentare la cantina, ma il comune di Montalcino si è opposto, sostenendo che l’impianto sarebbe stato di pessimo impatto visivo. Forse è stata una scelta estrema, perché sarebbe stato collocato sul tetto della cantina, però l’accaduto evidenzia l’attenzione nei confronti della terra. Qui la situazione è opposta: da qualche anno a questa parte, accanto ai vigneti, sorgono laghi di specchi, cosa che non valorizza affatto il territorio. L’unico che ne trarrà giovamento è l’imprenditore che avrà acquistato il terreno a basso costo e godrà di profitti e contributi per 25 anni, mentre alla nostra comunità non rimarrà che un terreno morto dal punto di vista biologico.
Rocco, cosa deovrebbero fare i produttori locali per promuovere i nostro vini?
I produttori dovrebbero avere obiettivi comuni, come fissare dei prezzi minimi, soprattutto per quanto riguarda i vini a denominazione d’origine, quindi DOC e DOCG. Questo garantirebbe innanzitutto un minimo d’introiti; non ci sarebbe una guerra al prezzo, ma solo alla qualità, il che gioverebbe a tutte le cantine. Un ulteriore obiettivo sarebbe porre in secondo piano i vitigni della zona non originali. Pensiamo alla Nosiola, in Trentino; una varietà che era scomparsa. Ora, quando si parla di Nosiola, si sa che si sta parlando di quella zona del Trentino dove viene prodotta. È un discorso che andrebbe portato avanti anche qui, a discapito di quelle varietà che sono state introdotte ma che non siamo i soli al mondo a detenere.
Considerata la tua esperienza all’estero, quali differenze hai notato a livello organizzativo?
La cantina in Oregon presso cui ho lavorato, nonostante fosse una PMI (piccola media impresa), vantava circa 50 presenze giornaliere, tra visite in cantina e permanenze in sala degustazioni. Nelle Marche non è così, forse perché non c’è l’offerta giusta. Nella nostra strategia di marketing abbiamo puntato sin da subito su questo aspetto. Altre grosse pecche della regione sono la scarsa valorizzazione della cultura e il fatto che in troppi son pronti a lucrare sul turista. All’estero l’Italia è indubbiamente apprezzata per le sue bellezze, ma l’italiano ha una pessima reputazione.
I nomi dei tuoi vini sono davvero originali, come mai?
Il bianco è un Falerio, ‘Avora’. È una piccola licenza poetica: nella forma dialettale suonerebbe ‘da vora’, che indica i vigneti esposti a nord, nord-est, quindi a venti come la bora; in marchigiano ‘la vora’.
‘Polisia’ è un Rosso Piceno, il nome deriva da un’antica leggenda legata al protettore di Ascoli, Sant’Emidio. Polisia era la figlia di Polibio, un prefetto romano che governava su Ascoli. Quando i Romani non erano ancora cattolici, Polisia decise di farsi battezzare dall’allora vescovo di Ascoli, Sant’Emidio, scatenando l’ira del padre. Si rifugiò sull’Ascensione e fu fatta santa. Gli ascolani, ancora oggi, vanno in pellegrinaggio sul monte dell’Ascensione per renderle omaggio. I vigneti con i quali produciamo questo vino sono proprio di fronte l’Ascensione.
Il ‘Konè’ è un Rosso Piceno Superiore, affinato in barrique. Ho scoperto che uno dei nomi che usava mia nonna per chiamarmi quando ero piccolo, ovvero “co’’’, che io credevo stesse per ‘cocco’ o ‘cuore’, è invece un’abbreviazione di ‘konè’, una parola che deriva dal greco ed indica una ‘cosa preziosa’. Il Konè è un vino ricercato, affinato per almeno due anni e mezzo, dunque qualcosa di prezioso.
Per quanto riguarda le riserve, ho cercato dei nomi che fossero più legati alla nostra famiglia, perché se adesso siamo qui a parlare di questo lo devo ai sacrifici dei miei nonni. ‘Zaccarì’ è la nostra Passerina fatta in legno, una rivoluzione rispetto a quella più largamente conosciuta, ed è il nome della nostra casata.
Per il Sangiovese e il Montepulciano abbiamo pensato ai nomi dei nostri nonni, Livio e Filomena. Livio era un contadino e un commerciante ed abbiamo pensato a una rivalsa postuma, appunto ‘Sorlivio’. Mia nonna è sempre stata una donna forte, come molte del territorio. Ho scoperto che Filomena in greco vuol dire ‘amico della forza’, da qui ‘Philumene’, che tra l’altro si addice molto alle caratteristiche del Montepulciano.
Perchè un turista dovrebbe venire nelle Terre del Piceno?
Le nostre tradizioni rappresentano esattamente quello che si aspettano i turisti, che hanno una visone dell’Italia decisamente bucolica. Pensando anche alle altre regioni, se parliamo di costi, siamo molto più competitivi. Sicuramente, in quanto a promozione ed offerta turistica, dovremmo fare più di quanto è stato fatto fin’ora.
Rocco, qual è il tuo sogno nel cassetto?
Per questa zona, il mio sogno è che la politica investa sulla cultura, sul turismo, sulla ricerca e sull’innovazione, che sono trampolini di rilancio del nostro territorio, di quelli che saranno i nostri figli e nipoti. Spero non sia un’utopia. A livello personale, il mio sogno è tornare in Nuova Zelanda, non da turista. Vorrei legare varietà nostre alla vinificazione in Nuova Zelanda. Potrebbe essere un’occasione per passare qualche mese all’anno in queste terre, che tra l’altro assomigliano molto all’Italia; solo che lì non ci sono mai stati abusi edilizi o cose simili, quindi è rimasta una terra che amo definire ‘pura’.
Rocco, grazie per la tua disponibilità e il tuo coraggio.
Prosit!
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